Cittadino aggredito e morso da un cane randagio: nessuna responsabilità pubblica e nessun ristoro economico
La persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per ottenere un risarcimento ha l’onere di provare la colpa della pubblica amministrazione per il danno patito, colpa che, però, non può essere desunta dal mero fatto che un cane randagio abbia causato il danno, essendo necessaria, invece, la dimostrazione della insufficiente organizzazione di un servizio di prevenzione nella lotta al randagismo

Il mero fatto che un cane randagio abbia aggredito e morso un privato cittadino, arrecandogli serie lesioni, non è sufficiente per porre sotto accusa la pubblica amministrazione, ossia, in prima battuta, l’Azienda sanitaria locale e, in seconda battuta, il Comune.
Questo il punto fermo fissato dai giudici (sentenza numero 16788 del 23 giugno 2025 della Cassazione) a chiusura del contenzioso relativo all’istanza risarcitoria avanzata da una donna morsa in strada, nel territorio di un Comune pugliese, da un cane randagio.
Per i giudici, difatti, la persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per ottenere un risarcimento ha l’onere di provare la colpa della pubblica amministrazione per il danno patito, colpa che, però, non può essere desunta dal mero fatto che un cane randagio abbia causato il danno, essendo necessaria, invece, la dimostrazione della insufficiente organizzazione di un servizio di prevenzione nella lotta al randagismo.
Scenario dell’episodio che dà il ‘la’ al fronte giudiziario e che risale ad oltre dieci anni fa è il territorio di un piccolo Comune pugliese. In quel contesto, difatti, una donna viene aggredita da un branco di cani randagi mentre sta camminando tranquillamente sulla pubblica via. In quei concitati momenti un animale riesce a morderla, provocandole lesioni poi guarite ma con postumi permanenti.
A fronte dei danni riportati, la donna punta l’indice contro il Comune, colpevole, a suo dire, di non aver garantito che l’animale randagio non arrecasse disturbo o danni alle persone nelle vie cittadine, in ottemperanza alla funzione di vigilanza e di controllo demandata agli enti civici, e di non essersi dotato di un canile dove ricoverare i cani catturati.
A essere chiamata in causa, però, è anche l’Azienda sanitaria locale, cui, in teoria, è affidata l’attività di recupero e cattura dei cani randagi.
A chiudere il contenzioso provvedono i magistrati di Cassazione, respingendo in via definitiva l’azione giudiziaria proposta dalla donna ed escludendo ogni possibile addebito nei confronti dell’Azienda sanitaria locale e del Comune.
I magistrati chiariscono innanzitutto che la presunzione di colpa non s’applica nel caso di danni provocati da cani randagi. Rispetto a tali animali, difatti, i compiti della pubblica amministrazione sono essenzialmente di prevenzione e non di protezione, di tutela della popolazione dagli animali e non di tutela degli animali dai rischi dell’antropizzazione.
Per quanto concerne la presunta colpa del Comune, i giudici fanno il punto: la responsabilità civile per i danni causati dai cani randagi grava esclusivamente sull’ente cui le singole leggi regionali attribuiscono il compito di cattura e custodia. E la specifica legge regionale della Puglia sancisce che le amministrazioni comunali sono prive di legittimazione passiva in merito alla pretesa risarcitoria per i danni causati dai cani randagi. Ciò perché i Comuni devono, in base alla legge, limitarsi alla gestione dei canili al fine della mera accoglienza dei cani randagi recuperati, mentre al relativo ricovero, che presuppone l’attività di recupero e cattura, sono tenuti i servizi veterinari delle Aziende sanitarie locali.
Discorso più complesso, invece, per quanto concerne l’addebito mosso all’Azienda sanitaria locale.
In generale, la pubblica amministrazione, ossia l’Azienda sanitaria locale, in questa vicenda, può essere chiamata a rispondere dei danni causati da cani randagi ma la persona danneggiata ha da provare una condotta commissiva od omissiva dell’ente, la natura colposa di tale condotta ed il nesso causale tra tale condotta ed il danno subito». Sempre in generale, è una condotta colposa della pubblica amministrazione non adempiere i doveri ad essa imposti dalla legge.
Ragionando sulla specifica vicenda, è onere della persona danneggiata dimostrare che la pubblica amministrazione, contro cui è rivolta la domanda di risarcimento, non abbia adempiuto gli obblighi ad essa imposti dalla legge allo scopo di prevenire il randagismo ed i danni che tale fenomeno può arrecare alle persone. E tale prova può fornirsi, ad esempio, dimostrando che al servizio di prevenzione del randagismo la Azienda sanitaria locale non aveva destinato alcuna risorsa o aveva destinato risorse insufficienti, o, ancora, che il relativo ufficio esisteva solo sulla carta, o che il servizio veniva svolto in modo saltuario o non veniva svolto affatto.
Detto ciò, i giudici forniscono una precisazione importante: la prova che la pubblica amministrazione non abbia apprestato un efficace servizio di prevenzione del randagismo (e dunque la prova della condotta omissiva) non può invece trarsi dal mero fatto che un cane randagio abbia causato un danno. In primo luogo, perché l’obbligazione della pubblica amministrazione di prevenire il randagismo è una obbligazione di mezzi, non di risultato: dunque, dal fatto noto che il risultato non sia stato raggiunto non può risalirsi al fatto ignoto che l’insuccesso sia dovuto a colpa della stessa pubblica amministrazione. In secondo luogo, perché l’essenza della colpa consiste non solo nella prevedibilità, ma anche nella prevenibilità. E nemmeno il più capillare ed efficiente servizio di cattura potrebbe impedire del tutto che un animale randagio possa comunque trovarsi in un determinato momento sul territorio comunale. In terzo luogo, non rileva ai fini della dimostrazione della condotta colposa la teoria cosiddetta della concretizzazione del rischio, teoria cui si ricorre quando si tratti di stabilire se una condotta sia stata o non sia stata la causa d’un danno. Ma tale teoria è invece inutile quando si tratti di accertare un fatto, quale è lo stabilire se la pubblica amministrazione abbia o non abbia adempiuto un obbligo di legge. La spiegazione causale infatti consiste in un giudizio e presuppone un criterio di giudizio, e l’accertamento d’una condotta consiste nella ricostruzione storica d’un fatto e ne presuppone la prova. Dunque, è scorretto logicamente, prima che giuridicamente, pretendere di accertare la sussistenza d’una condotta colposa in base ad un criterio di spiegazione della causalità.
Per i giudici, quindi, è impensabile sostenere che una condotta indimostrata sia stata la causa d’un danno. Se manca la prova della condotta colposa, commissiva od omissiva che sia, nessuna spiegazione causale è possibile anche solo imbastire.
Comunque, una volta dimostrata, da parte della persona danneggiata, l’inerzia colposa della pubblica amministrazione, resta da provare che quell’omissione sia stata la causa materiale del danno.
In questo quadro va inserita la teoria della concretizzazione del rischio, secondo cui il nesso di causalità può ritenersi dimostrato quando: esista una norma che imponga una certa condotta al fine di prevenire un determinato rischio; sia accertata la violazione dell’obbligo di condotta; si sia avverato il rischio che la norma impositiva dell’obbligo mirava a prevenire. Solo a fronte di queste tre circostanze, è consentito ritenere che il soggetto danneggiato abbia validamente dimostrato il nesso di causalità tra l’omissione addebitabile all’ente e il danno da lui subito.
Necessario, secondo i giudici, fare chiarezza, traendo spunto dalla vicenda verificatasi in Puglia, anche perché il contenzioso originato dai danni causati da cani randagi è fenomeno relativamente recente a livello giudiziario, con una prima decisione della Cassazione nel 2005 ma nessun provvedimento analogo negli anni precedenti.
Col tempo, dall’inizio del 2000, il fenomeno – singolarmente concentrato in quattro Regioni (in ordine di frequenza: Calabria, Puglia, Campania e Sicilia) – ha assunto dimensioni ragguardevoli: dal 2005 ad oggi la Cassazione ha deciso centotredici ricorsi aventi ad oggetto danni causati da cani randagi. A fronte di tale crescente contenzioso, i magistrati di Cassazione hanno fissato negli anni alcuni punti fermi: per stabilire quale sia l’ente tenuto a prevenire il randagismo occorre fare riferimento alla legislazione regionale; la responsabilità della pubblica amministrazione è disciplinata da quanto stabilito dal Codice Civile in materia di risarcimento per fatto illecito; chi domanda il risarcimento del danno causato da un cane randagio deve dimostrare il contenuto della condotta obbligatoria esigibile dall’ente, sì da dedurne la eventuale responsabilità sulla base dello scarto tra la condotta concreta e la condotta esigibile, quest’ultima individuata secondo i criteri della prevedibilità e della evitabilità e della mancata adozione di tutte le precauzioni idonee a mantenere entro l’alea normale il rischio connaturato al fenomeno del randagismo.
Non sufficiente, quindi, per invocare la responsabilità della pubblica amministrazione, la sola individuazione dell’ente preposto alla cattura e alla custodia dei randagi, sanciscono i giudici di Cassazione. Necessaria, invece, la precisa individuazione di un concreto comportamento colposo, e ciò implica che non è possibile riconoscere una siffatta responsabilità semplicemente sulla base della individuazione dell’ente cui la normativa nazionale e regionale affida in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi, in mancanza della puntuale allegazione e della prova, il cui onere spetta alla parte danneggiata, della condotta obbligatoria esigibile dall’ente e invece omessa.
Tornando alla visione proposta dalla donna vittima dell’aggressione nel Comune pugliese, i magistrati fanno chiarezza: pretendere, come fa la donna, che la circostanza di fatto che il cane – che l’ha aggredita – fosse libero venga letta come certificazione che il servizio di prevenzione del randagismo non era stato espletato in modo adeguato dal Comune (o dall’Azienda sanitaria locale) significherebbe introdurre una responsabilità oggettiva non giustificabile in base alla lettera ed allo spirito della legge.
Ritornando al quadro generale, una volta che il soggetto danneggiato abbia dimostrato in cosa sia consistita la condotta colposa della pubblica amministrazione, sorge il problema di valutarne l’efficienza causale rispetto al danno. A questo punto, il soggetto danneggiato può invocare la teoria della concretizzazione del rischio. E vi sono, in questa ottica, tre passaggi necessari per pervenire ad un giudizio di condanna della pubblica amministrazione per il danno causato da cani randagi: l’individuazione della norma che impone l’obbligo di provvedere; l’accertamento della condotta violativa di tale obbligo; la causalità tra omissione e danno.
Per i giudici non ci sono dubbi: se un cittadino viene ferito da un cane randagio, la Azienda sanitaria locale non è tenuta ipso facto a risarcirlo.
Ecco perché l’istanza di ristoro economico avanzata dalla cittadina pugliese va respinta, non avendo lei provato alcuna condotta colposa omissiva o commissiva del Comune o dell’Azienda sanitaria locale, sanciscono i giudici di Cassazione, i quali, in chiusura, fissano il principio di diritto secondo cui, in materia di responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati da cani randagi, la persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per il risarcimento ha l’onere di provare la colpa della pubblica amministrazione ed il nesso di causa tra questa e il danno patito. La colpa della pubblica amministrazione non può tuttavia essere desunta dal mero fatto che un cane randagio abbia causato il danno, ma esige la dimostrazione della insufficiente organizzazione del servizio di prevenzione del randagismo. Solo una volta fornita questa prova, il nesso di causa tra condotta omissiva e danno potrà ammettersi, anche ricorrendo al criterio cosiddetto della concretizzazione del rischio (il quale è criterio di spiegazione causale, e non di accertamento della colpa), in virtù del quale il fatto stesso dell’avverarsi del rischio che la norma violata mirava a prevenire è sufficiente a dimostrare che una condotta alternativa corretta avrebbe evitato il danno.