Basta un comportamento colposo od omissivo per vedersi addebitata una condotta discriminatoria
Questa prospettiva ha spinto i giudici a respingere l’istanza risarcitoria avanzata da un cittadino nei confronti di una società titolare di un negozio. La società ha dato prova di essersi dotata, da tempo, di personale deputato ad assistere gli avventori del negozio, in particolar modo, i soggetti fragili e dalla limitata mobilità, e, inoltre, il negozio è dotato di una rampa idonea a consentire l’ingresso alle persone con disabilità

La configurazione di condotta discriminatoria nei confronti di persone con disabilità non richiede necessariamente l’elemento intenzionale, potendo derivare anche da comportamento colposo od omissivo, con conseguente attribuzione di responsabilità. Ciò, però, a patto che vengano forniti elementi di fatto che rendano plausibile l’esistenza della discriminazione.
Questa la prospettiva tracciata dai giudici (ordinanza numero 16389 del 18 giugno 2025 della Cassazione), chiamati a prendere in esame l’istanza con cui un cittadino aveva ipotizzato una discriminazione ai propri danni da parte della società titolare di uno spazio di vendita.
Impossibile riconoscere, secondo i giudici, al cittadino un ristoro economico, poiché è emerso che la società si è dotata, da tempo, di personale deputato ad assistere gli avventori del negozio, in particolar modo, i soggetti fragili e dalla limitata mobilità, e, inoltre, il negozio è dotato di una rampa idonea a consentire l’ingresso alle persone con disabilità.
Ampliando l’orizzonte, però, i magistrati ricordano che, normativa alla mano, quando il soggetto (che sostiene di essere stato discriminato) fornisce elementi di fatto dai quali presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, per l’appunto, spetta al soggetto sotto accusa l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione.
Ulteriore approfondimento va riservato al tema delle omissioni e della condotta intenzionale.
In Appello si è fatto riferimento a due presupposti: quello dell’intenzione di attuare un comportamento volto a discriminare un soggetto in ragione della sua disabilità (elemento intenzionale) e quello dell’esistenza di una condotta attiva e non semplicemente omissiva. Dai magistrati di Cassazione arriva una correzione di rotta: il testo della norma consente di ritenere discriminatoria la condotta, prescindendo da una volontà discriminante (dolo), potendo anche derivare da una condotta non intenzionale (colpa), la quale può configurarsi anche come omissiva, come nel caso di rifiuto di un accomodamento ragionevole.
E anche per quanto attiene alla tutela risarcitoria, poi, è rilevante sia la condotta intenzionale che quella quanto meno colposa ed eventualmente omissiva dell’agente, inquadrando la richiesta risarcitoria nell’ambito del risarcimento per fatto illecito. Così, il riconoscimento del carattere discriminatorio di una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri presuppone, in ogni caso, presuppone la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi e oggettivi dell’illecito aquiliano alla luce della responsabilità per fatto illecito.